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Il regime attuale: l’autorizzazione del Tribunale
La sentenza è qui scaricabile Corte Costituzionale sentenza n. 143 2024.
Il decreto legislativo n. 150 del 2011 aveva introdotto all’art. 31 un regime particolare da seguire per chi avesse voluto rettificare il proprio genere e/o intraprendere il percorso per il cambiamento di genere come disciplinato dalla legge n. 164/1982.
In particolare l’art. 31 prevedeva:
“Art. 31 Delle controversie in materia di rettificazione di attribuzione di sesso
1. Le controversie aventi ad oggetto la rettificazione di attribuzione di sesso ai sensi dell’articolo 1 della legge 14 aprile 1982, n. 164, sono regolate dal rito ordinario di cognizione, ove non diversamente disposto dal presente articolo.
2. E’ competente il tribunale, in composizione collegiale, del luogo dove ha residenza l’attore.
3. L’atto di citazione e’ notificato al coniuge e ai figli dell’attore e al giudizio partecipa il pubblico ministero.
4. Quando risulta necessario un adeguamento dei caratteri sessuali da realizzare mediante trattamento medico-chirurgico, il tribunale lo autorizza con sentenza passata in giudicato. Il procedimento e’ regolato dai commi 1, 2 e 3.
5. Con la sentenza che accoglie la domanda di rettificazione di attribuzione di sesso il tribunale ordina all’ufficiale di stato civile del comune dove e’ stato compilato l’atto di nascita di effettuare la rettificazione nel relativo registro.
6. La sentenza di rettificazione di attribuzione di sesso non ha effetto retroattivo. Essa determina lo scioglimento del matrimonio o la cessazione degli effetti civili conseguenti alla trascrizione del matrimonio celebrato con rito religioso. Si applicano le disposizioni del codice civile e della legge 1° dicembre 1970, n. 898. ”
In questo senso quindi l’autorizzazione del Tribunale era necessaria per procedere sia alla rettificazione del genere sia agli interventi medico-chirurgici.
Il caso oggetto della decisione della Corte Costituzionale: persone non binarie
La Corte Costituzionale ha dovuto decidere della legittimità costituzionale della norma suindicata con riferimento al caso di una persona che affermava di essere di sesso anagrafico femminile, ma di non riconoscersi in quel genere e nemmeno in quello maschile, bensì di riconoscersi in un genere non binario.
Affermava inoltre di aver assunto già durante gli studi universitari un prenome maschile con cui si definiva rispetto agli altri e si era rivolta al S.S.N. da cui aveva ricevuto la diagnosi di disforia o incongruenza di genere.
Per questi motivi aveva, seguendo il disposto normativo dell’art. 31 del d.lgs 150/2011, adito il Tribunale di Bolzano per ottenere la rettificazione del sesso da “femminile” ad “altro”.
Cambiamento di genere: la sentenza della Corte
La Corte Costituzionale ha accolto il ricorso dichiarando l’illegittimità costituzionale dell’art. 31 del decreto legislativo 150/2011 nella parte in cui prescrive l’autorizzazione del tribunale al trattamento medico-chirurgico anche qualora le modificazioni dei caratteri sessuali già intervenute siano ritenute dallo stesso tribunale sufficienti per l’accoglimento della domanda di rettificazione di attribuzione di sesso.
La motivazione in diritto
La decisione della Corte si pone in continuità con due precedenti sentenze:
- la n. 161 del 1985 che viene ripresa in questo senso: “[quel]la stessa sentenza ha rimarcato che l’allineamento somatico all’identità sessuale è funzionale a ripristinare lo stato di benessere della persona e che è dovere di solidarietà per gli altri membri della collettività riconoscere l’identità oggetto di transizione, senza che quest’ultima possa essere considerata fattore di perturbamento dei rapporti sociali e giuridici, atteso che «il far coincidere l’identificazione anagrafica del sesso alle apparenze esterne del soggetto interessato o, se si vuole, al suo orientamento psicologico e comportamentale, favorisce anche la chiarezza dei rapporti sociali e, così, la certezza dei rapporti giuridici»“;
- la n. 221 del 2015 che viene ripresa in questo senso: “questa Corte, chiamata a pronunciarsi sul requisito normativo delle «intervenute modificazioni dei […] caratteri sessuali», quale condizione della pronuncia di rettificazione, ha escluso che le stesse includano necessariamente un trattamento chirurgico, in quanto le modalità dell’adeguamento dei caratteri sessuali devono adattarsi all’«irriducibile varietà delle singole situazioni soggettive»” e ancora “«L’esclusione del carattere necessario dell’intervento chirurgico ai fini della rettificazione anagrafica» – si è precisato – «appare il corollario di un’impostazione che – in coerenza con supremi valori costituzionali – rimette al singolo la scelta delle modalità attraverso le quali realizzare, con l’assistenza del medico e di altri specialisti, il proprio percorso di transizione, il quale deve comunque riguardare gli aspetti psicologici, comportamentali e fisici che concorrono a comporre l’identità di genere»“. E questo, secondo la Corte, è funzionale alla identità di genere: “posto che quest’ultima è «elemento costitutivo del diritto all’identità personale, rientrante a pieno titolo nell’ambito dei diritti fondamentali della persona (art. 2 Cost. e art. 8 della CEDU)», il trattamento chirurgico è stato quindi riconfigurato «non quale prerequisito per accedere al procedimento di rettificazione», bensì «come possibile mezzo, funzionale al conseguimento di un pieno benessere psicofisico»“.
- le nn. 180 e 185 del 2017, per cui: “«l’interpretazione costituzionalmente adeguata della legge n. 164 del 1982 consente di escludere il requisito dell’intervento chirurgico di normoconformazione», «ciò non esclude affatto, ma anzi avvalora, la necessità di un accertamento rigoroso non solo della serietà e univocità dell’intento, ma anche dell’intervenuta oggettiva
transizione dell’identità di genere, emersa nel percorso seguito dalla persona interessata; percorso che corrobora e rafforza l’intento così manifestato», sicché «va escluso che il solo elemento volontaristico possa rivestire prioritario o esclusivo rilievo ai fini dell’accertamento della transizione»”.
La Corte ha infatti ritenuto che la necessaria autorizzazione del Tribunale non fosse più coerente con l’ordinamento perché: “il regime autorizzatorio è divenuto tuttavia irrazionale, nella sua rigidità, laddove non si coordina con l’incidenza sul quadro normativo della sentenza della Corte di cassazione, sezione prima civile, 20 luglio 2015, n. 15138, e successivamente della sentenza di questa Corte n. 221 del 2015. Come più sopra ricordato, tale evoluzione giurisprudenziale ha escluso che le modificazioni dei caratteri sessuali richieste agli effetti della rettificazione anagrafica debbano necessariamente includere un trattamento chirurgico di adeguamento, quest’ultimo essendo soltanto un «possibile mezzo, funzionale al conseguimento di un pieno benessere psicofisico»“.
La richiesta di un’autorizzazione da parte del Tribunale è quindi irragionevole per questi motivi: “potendo questo percorso compiersi già mediante trattamenti ormonali e sostegno psicologico-comportamentale, quindi anche senza un intervento di adeguamento chirurgico, la prescrizione indistinta dell’autorizzazione giudiziale denuncia una palese irragionevolezza: in tal caso, infatti, un eventuale intervento chirurgico avverrebbe comunque dopo la già disposta rettificazione“.
Conseguenze pratiche
La sentenza della Consulta si pone in continuità con le pronunce di alcuni Tribunali di merito che già ora procedevano ad autorizzare contemporaneamente di procedere agli interventi medico-chirurgici per il cambiamento di genere e alla rettifica della attribuzione di genere, mentre la legge prescrive che si faccia prima l’intervento e poi si ottenga l’autorizzazione per la ratifica.
In questi termini la norma contestata è considerata irragionevole dalla Corte costituzionale che l’ha dichiarata illegittima.
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