Acquisti di un coniuge in comunione legale: conseguenze sulla proprietà dei beni acquistati (art. 177 e 179 c.c.)

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Acquisti di un coniuge in comunione legale: le conseguenze sul piano pratico

Gli acquisti compiuti anche separatamente dai coniugi in regime di comunione legale rientrano nella comunione, ovvero sono di entrambi anche se l’altro coniuge non sia stato parte dell’atto.

Sono esclusi  dalla comunione gli acquisti operati con denaro personale dell’acquirente, cioè quello indicato nei casi tassativi dell’art. 179 c.c.

Al fine di evitare questioni in ordine alla titolarità di tali beni, l’art. 179 all’ultimo comma consente che gli acquisti siano esclusi “quando tale esclusione risulti dall’atto di acquisto se di esso sia stato parte anche l’altro coniuge”.

Questa dichiarazione dell’altro coniuge non serve per i beni acquistati prima del matrimonio, il che è ovvio perché prima del matrimonio… il coniuge non c’era.

Nel caso di acquisto con denaro che proviene da una donazione fatta al coniuge acquirente o da una sua eredità, basta che lui lo dichiari. Non serve cioè che partecipi all’atto anche l’altro coniuge per confermarlo (Cass., 16 luglio 2021 n. 20336).

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La presenza necessaria dell’altro coniuge

Il problema si pone invece per tutte le altre ipotesi di acquisto, cioè con denaro che il coniuge abbia ricavato dalla vendita di beni personali.

E’ ormai è consolidata la prassi per cui la necessità che “tale esclusione risulti dall’atto di acquisto“ venga assolta con una dichiarazione del coniuge non acquirente, che conferma la provenienza personale del denaro utilizzato per l’acquisto. A ben vedere il codice non chiede questa dichiarazione: il coniuge acquirente potrebbe dimostrare direttamente la provenienza del denaro, senza che l’altro coniuge dica nulla di nulla. Fatto sta che la prassi è questa, anche perché semplifica la vita a tutti.

Si noti che il problema non sorge quando si fa l’atto, ma eventualmente quando i coniugi si separano, perché i beni in comune si possono poi dividere, quelli personali restano al loro proprietario.

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Le verità della dichiarazione del coniuge non acquirente

Proprio quando i coniugi si separano sorge il  problema della verità di ciò che dichiara il coniuge non acquirente, che si pente di aver detto una cosa non vera.

Il problema è se questo pentimento abbia valore oppure no. La risposta è positiva, perché  da tempo la giurisprudenza considera la dichiarazione non vera non sia efficace. Con la conseguenza che l’acquisto ricadrà nella comunione, cioè spetterà per il 50% ciascuno se la comunione si scioglie per la separazione.

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Cosa dice la Cassazione?

La cassazione con la sentenza 16 luglio 2021 n. 20336 ha ribadito quella regola.

Nel caso di acquisto di un immobile effettuato dopo il matrimonio da uno dei coniugi in regime di comunione legale, la partecipazione all’atto dell’altro coniuge non acquirente, prevista dall’art. 179 c.c., comma 2, si pone come condizione necessaria ma non sufficiente per l’esclusione del bene dalla comunione. Occorre a tal fine non solo il concorde riconoscimento da parte dei coniugi della natura personale del bene, ma anche l’effettiva sussistenza di una delle cause di esclusione dalla comunione tassativamente indicate dall’art. 179 c.c., comma 1, lett. c), d) ed f). Con la conseguenza che l’eventuale inesistenza di tali presupposti può essere fatta valere con una successiva azione di accertamento negativo, non risultando precluso tale accertamento dal fatto che il coniuge non acquirente sia intervenuto nel contratto per aderirvi“.

Si tratta di un orientamento inaugurato da una decisione a sezioni unite (sent. 28 ottobre 2009 n. 22755) poi ancora ribadito (Cass., 12 marzo 2019, n. 7027).

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La revoca della confessione

Attenzione: il coniuge non acquirente non può limitarsi ad affermare di aver detto una cosa sbagliata, cioè che diversamente da quanto dichiarato, il denaro era della comunione e non personale dell’altro. Quando si dichiara un fatto a sé sfavorevole, come quando si dice che il denaro è tutto dell’altro coniuge, la dichiarazione per il diritto è una “confessione” (art. 2730 c.c.).

Il codice non consente di revocare una confessione semplicemente affermandola contraria al vero (art. 2732 c.c.). Infatti da sempre la giurisprudenza chiede che si dimostri la causa dell’errore, essendo altrimenti evidente, ad es., che ogni quietanza di pagamento potrebbe sempre essere messa in dubbio dal debitore che l’abbia sottoscritta. Lo dice ad es. Cass., 25 agosto 2020, n. 17716: “la confessione può esser invalidata (e non “revocata”) soltanto se chi confessa dimostra non solo la non veridicità della dichiarazione, ma anche che essa fu determinata da errore di fatto o da violenza“.

E’ un orientamento sempre ribadito. Ad es. Cass., 18 novembre 2016, n. 23565:  quanto dichiarato in atto dal coniuge non acquirente costituisce una “dichiarazione che ha natura ricognitiva e confessoria dei presupposti di fatto già esistenti (la provenienza del denaro utilizzato per l’acquisto). Di conseguenza che l’azione di accertamento negativo della natura personale del bene postula la revoca della confessione stragiudiziale resa dall’altro coniuge nei limiti in cui la stessa è ammessa dall’art. 2732 c.c. e cioè per errore di fatto o violenza“.

Applicando questa regola al nostro caso il coniuge che impugni per errore la propria dichiarazione, dovrebbe dimostrare il proprio errore. Questa diventerebbe una prova impossibile da dare.

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Irrilevanza della dichiarazione del coniuge non acquirente

Senonchè a mio modo di vedere si deve tornare alla formula dell’art. 179 c.c. Infatti il codice non chiede la dichiarazione del coniuge non acquirente; quindi è sbagliato dire che “occorra a tal fine … il concorde riconoscimento da parte dei coniugi della natura personale del bene.”

Il codice pretende solo la sua partecipazione all’atto e, contemporaneamente con la appartenenza personale del denaro dell’altro coniuge.

Qualsiasi cosa dichiari il coniuge non acquirente, in altre parole, sarà irrilevante perché non è la sua dichiarazione ad escludere il bene dalla comunione. L’esclusione dipende solo dal fatto oggettivo della estraneità alla comunione, del denaro con cui il bene è stato acquistato a produrre l’effetto.

Conclusioni

Al contrario di quanto ha indicato la sentenza del 2016 appena ricordata, il coniuge ben può dimostrare che l’altro coniuge abbia utilizzato denaro della comunione e non personale, anche se abbia dichiarato il contrario in atto. E questo perché l’effetto degli acquisti operati in regime di comunione legale deriva da una norma imperativa, che non può essere violate.

Infatti l’appartenenza alla comunione costituisce per il coniuge non acquirente un diritto indisponibile che, come per tutti i diritti indisponibili, non può essere oggetto di confessione: lo indica l’art. 2730 c.c. Che poi resti indubbiamente comodo che vi sia il concorde riconoscimento da parte dei coniugi della natura personale del bene è certamente vero, ma non è esatta la conseguenza estrema che se ne è tratta circa l’effetto preclusivo che ne deriva.

Ma alla fine di tutto, è bene dire sempre il vero davanti al notaio!

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Se l’accordo fallisse sarà poi sempre possibile avviare un giudizio ordinario.

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